Re: Cosa nella natura e nell'uomo rende possibile la scienza
> Peraltro mi risulta che tale
> teoria dell'origine delle formulazioni di saperi scientifici sul mondo
> sia curiosamente simile a quella di certe teorie sulla nascita delle
> credenze delle religioni...
La credenza o superstizione (in genere), a fronte della paura e del bisogno genera costruzioni aprioristiche, prostrazione e servilismo; il procedimento moderno della scienza usa domande coerenti, sfrutta l'osservazione epurata da pregiudizi attraverso lo studio di riproduzioni (anche semplificate) dei fenomeni, perviene a risposte in modo deduttivo a partire da constatazioni empiriche o ipotesi teoriche.
I temi che proponi sono stimolanti, potrebbero andare bene in un NG di filosofia, ma anche in questo credo. Io ho come l'impressione che la fisica sia in un certo senso la scienza della constatazione: questa cosa esiste, sia anche in relazione ad una deduzione puramente teorica che esuli dal dato empirico, lo si constata attraverso i sensi (previo opportuno esperimento fisico in senso stretto o anche solo mentale) e si formula il principio o la legge conseguente. Questo non dice nulla circa l'essenza del fenomeno e forse per questo, delle volte, si fanno orecchi da mercante di fronte a queste problematiche.
Vi sono problemi a mio giudizio insormontabili: mi viene in mente la problematica inerente al grado di garanzia dei sensi e all'oggettivita' della realta' e della sua necessita', che partendo da Cartesio arriva a Hume e Leibniz. Kant credo che abbia messo in evidenza che vi sono dei limiti oggettivi. La filosofia, secondo me, non puo' fare piu' di tanto per via di questo, infatti anche se il metodo si mantiene all'interno di un perimetro logico ovvero utilizza una costruzione teoretica ineccepibile dal punto di vista formale, deve alla fine dei conti scontrarsi con concetti estremamente profondi e questioni alquanto delicate; nella peggiore delle ipotesi, infine, deve guardare ad un oggetto in cui e' presente un alto grado di autorifermento (la mente), per cui non puo' fare a meno di ricorrere al linguaggio naturale con tutta l'ambiguita' che ne consegue.
Ho letto anche l'altro post sulla 'Teoria generale dei sistemi' e, per una strana combinazione, proprio pochi giorni fa avevo chiesto in consultazione quel libro per poi restituirlo immediatamente visto che conteneva un'impostazione generale (con ampio dibattito filosofico) e a me interessava qualcosa di puramente formale (in relazione al problema che avevo postato)... comunque grazie per il riassunto che hai fatto.
L'autore utilizza esempi di equazioni dinamiche per far vedere che la variazione dipende dal futuro (scopo).
Il finalismo (teleologia) consiste nel considerare il fine come elemento causale nella produzione di un dato evento. Puo' essere inteso ad un livello 'estremo' di fine a cui tende il tutto oppure, in senso piu' 'rilassato', di fine a cui tende ogni singolo evento calato nel tutto. Quando io mi riferivo alla questione teleologica intendevo in relazione alla prima accezione. In tal caso, penso non vi siano dubbi, qualunque affermazione dovrebbe risultare quantomeno azzardata (visti i limiti che si frappongono).
Ma c'e' di piu'. Concedendo che si possa affermare la cosa, si deve necessariamente ricorrere ad una intelligenza ordinatrice che agisca in vista di tale scopo. Una tale entita' dovrebbe essere a sua volta sottoposta al divenire, alla necessita' di qualche logica, pertanto si va a finire nel circolo vizioso gia' evidenziato ai tempi di Aristotele (argomento per me insuperabile a prescindere da quanto affermato da Kant). Qualora, in linea con questo autore, si consideri tale 'intelligenza' come un arche' liberato da connotazioni antropomorfiche (i.e. 'puro concetto' o 'immutabile principio sovrasensibile'), si finisce con l'escludere in partenza il presupposto essenziale alla possibilita' di un discorso in senso teleologico, cioe' la presenza di un ente a cui quello scopo torni utile, in vista del quale, in altre parole, l'ente operi (tramite opportune variazioni).
Per quel che riguarda gli enti intermedi, in sostanza, in base a quello che scrive l'autore, sembra emergere che lo stato finale (quando e' raggiungibile) coincida con il fine e questo debba essere gia' noto a priori, tanto che diventa la causa determinante la sequenza di opportune variazioni in grado di raggiungere il risultato desiderato.
Guardando alle equazioni, riformulate in quel modo, si dovrebbe rilevare che vi e' dipendenza dal valore dello stato finale quindi (in questi esempi del reale) vi sarebbe un rapporto di causalita' tra scopo e moto che quello precede. Questo fatto mi sembra interessante, pero' mi domando a chi o cosa tale fine faccia riferimento: l'ente dovra' pur avere un certo grado di capacita' di elaborazione dell'informazione, accorgersi di esigenze legate a certe proprie configurazioni interne e via dicendo: deve quindi necessariamente trattarsi di essere animato? Oppure e' sufficiente che il sistema contenga in se' l'informazione inerente al risultato finale, pur rimanendo 'cieco' rispetto a questo? Se poi l'equazione puo' essere, tramite opportuni passaggi formali, riscritta eliminando tale parametro 'futuro', ne consegue che il fine non risulta cosi' indispensabile alla descrizione del fenomeno: cio' che conta e' il puro meccanismo legato alle grandezze effettive. Guardando meglio i due esempi che hai citato mi pare
che le cose stiano proprio in questi termini (in particolare mi riferisco all'equazione sull'accrescimento).
Received on Mon Jun 25 2012 - 23:05:39 CEST
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