Re: Corso di Fisica Generale di Elio Fabri
On 02.12.22 15:10, Elio Fabri wrote:
...
> Fosse solo per questo, X era il meno indicato ad assumersi il compito
> di tenere il corso base del primo anno.
...
> Ovviamente tutto questo non ebbe la minima importanza nella decisione
> di esonerarmi da quell'insegnamento.
>
Nota: mi è venuto un post lunghissimo, cave :-)
Questa è una delle componenti di un dilemma di cui ho esperienza come
studente in due sistemi universitari diversi (Italia anni '90 e Stati
Uniti nel primo decennio del 2000) e anche brevemente come assistente
all'insegnamento nella università americana dove ho fatto il dottorato.
Nella università italiana in cui ho studiato (Trieste) la qualità dei
corsi, come percepita da me studente, era molto disomogenea. In alcuni
corsi percepivo l'impegno del docente, in altri il docente sembrava un
essere irraggiungibile. In alcune corsi le lezioni erano comprensibili,
in altri no.
Ricordo anche un malessere presente in molti studenti perché facevano
fatica a seguire, malessere al quale l'istituzione-università pareva non
interessata. In alcuni di questi studenti poi può essere il malessere
passasse quando si avvicinavano mediante il lavoro di tesi al mondo
della ricerca, però da una parte queste sono idee mie di molti anni dopo
e dall'altra questi fatti non sono collegati alla didattica.
Io avevo immaginato questo: nessuno controlla la qualità
dell'insegnamento, al massimo tra colleghi c'è un'interesse comune di
fare bene la ricerca. Detto in un'altra maniera, che fa male la ricerca
potrebbe essere isolato dai colleghi, ma chi insegna male no.
D'altra parte gli esami erano in linea di massima una verifica
impegnativa di quanto si era imparato, per cui uno era costretto a studiare.
Ulteriore mia immaginazione: se gli studenti non pagano o pagano poco,
non c'è incentivo a trattarli bene, e contemporaneamente i docenti non
si sentono in obbligo di dar loro una laurea (fatto che vedo come positivo).
Questa è la prima parte del dilemma: università pubblica, insegnamenti
di qualità varia, esami difficili, gli studenti sono costretti a studiare.
Nella università americana la qualità dei corsi di dottorato era
piuttosto uniforme e in generale secondo me più alta di quella dei
corrispondenti corsi italiani. I corsi del dottorato riempivano un anno
a tempo pieno (solo corsi, niente ricerca), un anno approssimativamente
a metà tempo e altri due anni in maniera più limitata. Teniamo presente
che i corsi del primo anno corrispondevano circa, come livello, al
terzo-quarto anno dell'università italiana, i corsi "da dottorato" erano
più quelli dal secondo anno in poi---anche se forse avremmo potuto
trovare una trattazione equivalente di quasi tutto nel quarto anno
dell'università italiana.
Questo però non rientra nel dilemma che voglio mettere in evidenza, sono
cose separate però potrebbe aiutare a farsi un quadro.
Infatti la buona qualità di questi corsi potrebbe dipendere dal fatto
che i docenti sentono l'insegnamento come una parte importante del loro
ruolo; e potrebbe dipendere anche dal fatto che avere studenti di
dottorato meglio istruiti poi ha varie conseguenze positive per
l'istituzione nel suo complesso, per esempio dà una buona reputazione
nei confronti delle aziende che poi assorbono i dottori di ricerca.
Quindi ecco un incentivo.
Per la seconda parte del dilemma:
Ho avuto qualche contatto anche con gli studenti "undergraduate" (cioè
quelli della laurea) e ho avuto l'impressione che per questi la musica
fosse diversa. Per inciso questa mia impressione è stata forse
influenzata dal parlar male diffuso e continuo di tante persone sugli
studenti universitari americani (parlare male degli undergrad, attività
molto gradita nelle riunioni fra studenti di dottorato stranieri).
La musica poteva essere questa: buona qualità delle lezioni, ma poche
pretese da parte dei docenti per fare passare gli esami. Qualche indizio
in questo senso lo ho avuto nell'unico corso undergrad per cui ho fatto
da assistente all'insegnamento; l'assistente all'insegnamento conduce le
esercitazioni, corregge i compiti e gli dà i voti, riceve gli studenti
un paio di ore alla settimana per rispondere alle loro domande sui
compiti. Ad almeno un paio di studenti ho messo voti sufficienti nei
compiti, ma non credo che con la preparazione che avevano in quel
momento avrebbero potuto passare quell'esame lì in Italia. Ma credo di
avere interpretato bene quello che il dipartimento si aspettava da me,
infatti il docente del corso non ha sollevato nessuna osservazione su
come avevo dato i voti. Forse neppure gli studenti medi della classe
avrebbero passato l'esame in Italia con la preparazione che avevano. Poi
tra gli studenti che ho avuto almeno una è diventata studentessa di
dottorato al MIT (però forse questa si vedeva che era brava), e almeno
un'altra ha una posizione di rilievo nell'industria, quindi non c'è una
relazione così ferrea tra la difficoltà dell'esame e quello che succede
dopo.
Generalizzando e immaginando a partire dalla mia esperienza e a partire
dalle maldicenze (e anche a partire dal fatto che parevano avere tempo
per fare un sacco di cose ;-) ), può essere che: siccome pagano, i
docenti sono tenuti a fare lezione bene, e siccome pagano, sono anche
tenuti a fargli passare gli esami.
Per concludere, mi pare che nell'università italiana attuale i docenti
abbiano degli incentivi a fare lezione bene, ma non la conosco, per cui
lascio l'argomento a qualche altro eventuale postatore. Forse supera il
dilemma come lo ho presentato io però.
Received on Fri Dec 02 2022 - 21:43:43 CET
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