Re: Iscriversi a Fisica conoscendo molta matematica,ma nulla di fisica(quasi)

From: Elio Fabri <mc8827_at_mclink.it>
Date: Thu, 10 Oct 2002 20:07:06 +0200

Giorgio Pastore ha scritto:
> O forse c'e' una spiegazione diversa: non ci sono molti modi per cercare
> di risolvere il problema (generalizzato) di durata reale > durata
> legale. A rischio di sembrare noioso, continuo a chiedere: se il 3+2
> non va bene cosa si fa ? si torna al vecchio sistema ? qualcuno ritiene
> che funzionava ? E secondo quale metro ? In particolare (anche per non
> andare completamente OT) a Fisica ?
Chiaro che il problema c'e'.
Mi permetto di descriverlo in modo quasi autobiografico.

Quando mi sono iscritto all'universita' (1947) l'universita' in generale
era per pochi, il CdL in Fisica poi era assolutamente elitario. Il
concetto dominante era: qui si pretendono certe capacita'. Se ce la fai
bene, se no, peggio per te, tanto di te non c'e' bisogno. Quando mi sono
laureato (1951) *a Roma* eravamo in 9 al quarto anno, e non tutti si
sono laureati in 4 anni...
Le cose sono rimaste cosi' per una decina d'anni, su per giu': nel 1962
(mi pare) c'e' stata una prima riforma, che istituiva i tre indirizzi
(generale, didattico, applicativo),. I piu' vecchi hanno studiato con
quelle regole: allora furono introdotti i corsi di IFT, Metodi,
Struttura.
Con questa riforma si era gia' operato un allargamento: il carattere
elitario restava (un po' attenuato) solo all'indirizzo generale, ma
comunque gli iscritti erano ancora pochi.
Per circa 20 anni (o piu'?) tutto e' rimasto cosi', ma gli iscritti sono
aumentati ed e' diventato piu' difficile dire "o mangi questa
minestra...". Si sono gradatamente ridotte le pretese: per es. e'
scomparso l'esame di cultura (alias prelaurea) che era lo spauracchio di
tutti i laureandi, perche' per tradizione si poteva chiedere qualunque
cosa, non aveva programma (e pesava sul voto di laurea).
L'aumento degli iscritti e' stato vertiginoso: 10 anni fa a Pisa (non a
Roma!) si arrivo' a 170 matricole (poi siamo riscesi tra 80 e 100). Ne
e' conseguita anche la necessita' di allargare il corpo docente, con
inevitabile calo della qualita'. Il famoso "ope legis" degli anni '80 ha
dovuto sancire che un sacco di persone espletavano da anni attivita'
didattica in forma precaria, e se li si riteneva degni d'insegnare, si
doveva dargli un posto stabile. Ma ovviamente non tutti erano (sono)
bravi docenti.
L'ultima riforma (senza spesa, ossia senza modificare il corpo docente,
ma accrescendo il carico didattico) e' stata un'ulteriore presa d'atto
del fatto ben noto che non si riesce a portare alla laurea piu' di 1/3
degli iscritti, e quasi mai in 4 anni, ma di regola in 6 anni o piu'.
Quindi si doveva fare qualcosa... (nel frattempo, io sono arrivato alla
soglia del "fuori ruolo"...)

Dicevo all'inizio: "chiaro che il problema c'e'". Gia', ma qual e'
esattamente il problema? Che cosa vogliamo fare di un laureato in
fisica? Quali capacita' e competenze vogliamo dargli? per quali
impieghi?
E' qui che cominciano le dolenti note...
Secondo me su tutto questo nessuno ha idee, e la difficolta' e'
oggettiva, perche' in realta' in Italia per un numero di laureati (in
fisica) pari o poco inferiore al numero di iscritti non ci sono
assolutamente prospettive di lavoro.
Per questo si e' inventata la laurea triennale, che pero' nessuno ha
capito bene ne' che figura professionale dovrebbe formare, ne' per quali
attivita' dovrebbe qualificare. Basti pensare che ancora non si sa
neppure come verra' inserita nel nuovo schema la figura del futuro
insegnante di scuola secondaria: quello che un tempo era l'impiego piu'
ovvio del laureato in mat. e fisica, fuori delle attivita' di ricerca.

Questa mancanza d'idee e' in parte dovuta al meccanismo stesso della
riforma, e qui torno alla storia (purtroppo io la conosco, per ovvi
motivi...).
Quando io sono entrato all'universita' (e ci rifa', direte voi :) ) la
laurea in fisica aveva appena subito una profonda modifica: inizialmente
a Roma, poi diffusa in gran parte d'Italia per osmosi. Pur restando
invariati nomi di esami, durata del corso di studi, ecc. erano stati
rivoluzionati i contenuti. Per fare un solo esempio: gli appunti di
Fisica Teorica di Wick (1943) contenevano le eq. di Maxwell; con la
riforma che sto dicendo queste andavano al secondo anno. Veniva
istituito un "tutorato" serio, affidato a un docente di prestigio (nel
caso specifico, Ageno) che seguiva da vicino i pochi studenti fin dal
primo anno.
Ma cio' che piu' conta, quella riforma fu decisa da un piccolissimo
gruppo di persone, che erano le stesse che l'avrebbero attuata, e che mi
basta e avanza una mano per contare: E. Amaldi, G. Bernardini, B.
Ferretti, E. Persico. Erano ovviamente fisici di punta, e costruirono un
nuovo schema di corso di laurea sulla base di cio' che loro ritenevano
dovesse essere un fisico 50 anni fa.

La riforma degli anni '60 segui' uno scehma diverso, in quanto fu
un'iniziativa ministeriale. Pero' l'ordinamento degli studi di fisica, i
contenuti dei corsi, furono decisi da una commissione composta da fisici
di varie universita', sulla base suppongo di una consultazione piu'
ampia, ma sempre molto ristretta (ricordate che a quel tempo le sole
autorita' erano i prof. ordinari, che erano assai meno di oggi...).
Non mi sogno di difendere in tuto e per tutto quella riforma: per es. a
mio giudizio l'istituzione dell'indirizzo didattico fu un grave errore,
ma non voglio divagare.
Pero' era un piano coerente, pensato da poche persone con idee chiare.

Arriviamo ora al 3+2: sappiamo tutti com'e' nato.
Primo: lo schema e' stato pensato come *universale*, ossia da applicarsi
nella stessa forma per qualunque tipo di studi. Data la proprzione
numerica di docenti e studenti fra le diverse Facolta', e' ovvio che la
prevalenza e' venuta dalle aree non scientifiche, e lo schema e' stato
pensato piu' sulle loro esigenze.
Secondo: l'attuazione concreta (insegnamenti, loro peso in crediti,
successione, ripartizione tra trienni e biennio) e' stata lascita in
larga misura all'autonomia delle singole universita', e quindi alle
deliberazione di una quantita' enorme di teste diverse, che hanno
operato secondo le procedure tipiche dei consigli (di corso di laurea,
di Facolta, ecc.). Procedure adeguate per spartirsi i posti e i fondi,
ma niente affatto per pensare schemi culturali, per costruire modelli di
figure professionali, ecc.
Non solo, ma l'autonomia ha prodotto concorrenza, che in teoria sarebbe
un bene, ma ha anche prodotto risultati ridicoli: corsi inventati al
solo scopo di fare effetto sui possibili iscritti...

Mi pare sia soprattuto per questo che nessuno sa bene che cosa questo
3+2 debba essere, che cosa potra' essere davvero, ecc.
Come ho gia' scritto in un altro post, i segnali che vedo non sono
incoraggianti. Mentre le condizioni iniziali dei nostri studenti non
stanno certo migliorando nel tempo, causa la crisi della scuola
secondaria, vedo nel triennio affastellati contenuti secondo me
inverosimili, che non potranno che essere trattati superficialmente. Non
riesco a capire che cosa restera' in mano a questi laureati triennali: i
corsi del vecchio biennio abbreviati e condensati per far posto ad altra
materia; argomenti del vecchio secondo biennio (penso ad es. a IFT e
Metodi) che allora erano propedeutici ad altri corsi, e ora dovrebbero
essere fine a se stessi, non si capisce per quale formazione, per quale
tipo di qualificazione, per quale lavoro...

Se poi il solo problema fosse quello di avere meno perdite, di aumentare
il rapporto laureati/iscritti, questo e' facile, tanto facile che non ho
bisogno di dirlo. Ma possiamo accettare di ridurre a questo il problema?
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Elio Fabri
Dip. di Fisica "E. Fermi"
Universita' di Pisa
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Received on Thu Oct 10 2002 - 20:07:06 CEST

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